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La piccola morte

Stazione Centrale Milano
Quella sera mentre parcheggiava l’auto nei pressi della stazione, mettendo i piedi per terra, si era accorto di qualcosa che stava quasi sotto la macchina anche se quando era arrivato non l’aveva notato.

Allungò la mano fino a terra e raccolse una vecchia, vecchissima fotografia. La esaminò con attenzione, non pareva una riproduzione, aveva tutte le caratteristiche di una fotografia d’altri tempi. Spessa ma fragile, ingiallita e seppiata, sfumata ai bordi, in un ovale racchiudeva il volto di una donna coi capelli neri e boccolosi, gli occhi neri e profondi, e un lieve movimento della bocca, che forse era un’espressione o forse nasceva dalla lunga esposizione che richiedevano le foto di una volta. Un movimento a metà tra un sorriso che appena nasceva e una smorfia beffarda che non si lasciava interpretare.

Incuriosito da quella piccola gioconda sconosciuta al grande pubblico e agli storici dell’arte, aveva riposto la foto in un taschino nella camicia e si era diretto come sempre verso la stazione.

Arrivò al binario 10, e come sempre, prese posizione.

A lui piacevano le ragazze pugliesi. Ogni domenica sera andava alla stazione ad attendere il treno da Lecce che arrivava alle 23 e si metteva sulla banchina ad osservare le ragazze che scendevano e che il convoglio aveva raccolto lungo tutta la puglia.

Aveva imparato a essere discreto e la sua posizione era accanto a uno dei grandi piloni d’acciaio che sostenevano le arcate metalliche della stazione, e lui come un camaleonte si vestiva dello stesso colore. La pavimentazione in quel punto si rialzava, come succede intorno agli alberi piantati in mezzo al cemento, ed era come se i piloni avessero messo le radici e germogliassero donne a ogni arrivo di un treno. E lui le osservava da più in alto, le osservava meglio, le osservava nascosto.

Col tempo le riconosceva tutte. Ed ecco che come sempre le vedeva venire avanti. La ricciolina nera e impertinente che litigava sempre al cellulare con una mano e con l’altra trascinava una samsonite grigia. La streghetta che come Amelia di Paperino aveva i capelli lisci e lunghi e gli occhi neri dallo sguardo imperturabile e aveva solo una piccola borsa a tracolla. Una mezza normanna con gli occhi azzurri e la pelle abbronzata alla luna che portava uno zaino sulle spalle e di cui si sentiva il profumo di seta nell’aria. Una racchietta con gli occhiali spessi che era assorta negli mp3 del suo ipod che spuntava fuori da una tasca dei jeans.

E poi.

E poi questa volta c’era una che non riusciva a riconoscere. Avanzava con passo deciso ma lieve, con un certo spazio intorno, come se un soffice ma impenetrabile cuscino d’aria la racchiudesse e procedesse insieme a lei. Il ritmo dei passi era diverso da quello degli altri, era da moviola. Altrettanto lentamente lei girò lo sguardo su di lui. Nessuna si era mai accorta di lui, nessuna. Nessuna lo aveva mai fissato, ma nemmeno guardato. Era discreto lui. Faceva parte del pilone. Non poteva essere notato. Eppure lei lo fissava e il suo sguardo faceva compasso su di lui.

E lui non la riconosceva. L’aveva già vista, ma non la riconosceva. Negli anni capitava che alcune ragazze sparissero e altre comparissero. Ma lei non era nuova. Ma non era nemmeno una vecchia conoscenza della banchina, eppure l’aveva già vista.

Intanto che lui sfogliava nei suoi neuroni, lei si era fatta molto vicina. Era a distanza di profumo. Ne vedeva i dettagli della pelle, cellula per cellula. Lei lo oltrepassò a pochi millimetri. Lui, pietrificato, non riuscì a seguirne il movimento. Non guardava mai le ragazze abbandonare la banchina, non sapeva come erano fatte dietro. Non ne avrebbe mai riconosciuta una di spalle. Ogni volta che spariva dalla sua prospettiva era come una piccola morte, un possibile eterno commiato. Nulla gli garantiva che ci sarebbero state sul prossimo treno. E questa volta non voleva affrontare la morte. Voleva sapere chi fosse.

Passarono alcuni secondi o minuti o quarti d’ora. Chissà. Finalmente d’impulso si girò per seguirla, si mise a correre cercandola tra la folla. Corse, corse e corse. Fin fuori dalla stazione. Fin nella grande piazza. Ma lei si era dileguata. Lui si fermò col fiatone curvo sulla braccia agganciate alle ginocchia. Per prendere aria guardò verso il basso e poi verso il proprio petto e intravide la vecchissima foto nel taschino. La tirò fuori e realizzò. Era lei la ragazza della foto. Era lei la ragazza della banchina che non riconosceva ma aveva già visto.

E riprese a correre, subito.

(Continua nella prossima puntata)

Mag 14, 2006Massj

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Pagro Comunista con Giogantinu Vermentino di Gallura 2005Augustazione di Mark, "Dal vivo a cazzi miei"
Comments: 3
  1. GPZ
    Maggio 15, 2006 at 8:33

    Dai, in fretta con la seconda puntata che sono curioso.

    ReplyCancel
  2. Ro
    Maggio 15, 2006 at 10:35

    The loneliness of the long distance runner…
    Correndo, correndo…
    Buon lunedì!!!
    Ro

    ReplyCancel
  3. tarja
    Maggio 18, 2006 at 14:03

    somewhere in time canzone n. 5 iron maiden

    ReplyCancel

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