Ieri sera guardavo una delle puntate di Lost, la fiction americana che va in onda su raidue ma che io a volte perdo e allora recupero su Telemulo.
Il protagonista, Frank, che dall’incidente aereo aveva riportato un grossa taglio sulla schiena che la protagonista Kate ricuce con gin, ago e filo nella prima puntata, si tuffa in mare a salvare una fanciulla che annega, mostrando una schiena muscolosa e perfetta e già guarita in soli due giorni di tempo diegetico.
Ora, o fa parte delle magie dell’isola di Lost, o hanno cannato di brutto.
Ma questo era giusto l’incipit per parlare della fiction americana e di come questa abbia soppiantato il cinema nell’essere la migliore e la più efficace espressione dell’industria culturale statunitense.
Infatti, il cinema americano negli ultimi 10 anni si è fossilizzato nella produzione di maniera, nel racconto del mito americano e dei suoi eroi, nell’onirismo paranoico che è sempre lo stesso degli anni ’50, e penso al cinema di Oliver Stone o di Tim Robbins, ma anche a quello di Quentin Tarantino, che sicuramente non verrà ricordato per Kill Bill, una vera boiata.
Accanto a questi, ci sono piccoli autori che ogni tanto producono brandelli di cinema all’europea, quindi il cinema di un paese che appena inizia ad avere una storia e una consapevolezza di sè, film piccoli e senza pretese, come Sideways che però sarebbe stato impensabile 20 anni fa, o il cinema di Kevin Smith, anche se pare essersi già perso.
Ma questo piccolo cinema appena lambisce una società americana che è profondamente cambiata e diversificata non tanto nei suoi valori di fondo ma piuttosto nella loro applicazione, per cui ora vive in uno stato di rarefazione in lontane, illusoriamente benestanti ma noiose province dell’impero. Una società argillosa che quando manca l’acqua che la impasta, facilmente si frattura come nel caso del disastro di New Orleans, in cui abbiamo assistito agli americani contro gli americani, in cui ogni diversità è motivo di conflitto, fino all’irriducibilità dell’individuo che combatte se stesso.
La fiction televisiva americana indaga e dilaga in questi territori sociali, e al contempo li rappresenta e ne costruisce l’identità, perché da un esempio della consapevolezza dell’io sociale. Ritrae questi tipi sociali e anziché fornire il futuro dell’happy end, fornisce una metodologia su come vivere il quotidiano.
Il cinema americano infatti nel raccontare l’eroe o il criminale propone modelli comportamentali di fatto inutili e irriproducibili perché alieni al compromesso con il quotidiano che invece è indagato e risolto dalla fiction, dove il personaggio non è tanto un modello di vita, ma piuttosto un artigiano con le mani sporche della vita che inventa e propone micro-tecniche di difesa, attacco e raggiungimento degli obiettivi.
Abbiamo parecchi personaggi esempio di questo. Oltre a essere molto affezionato a sit-com come Friends e Dream On, che hanno il merito storico di introdurre il personaggio negativo, difettoso, non perfetto, anzi corrotto, criticabile, oggi sono molto interessato a due serie.
Una è Sex and the City, che rappresenta le donne liberal e democratiche di una grande città come New York, e l’altra è Desperate Housewives, che invece rappresenta le donne conservatrici e repubblicane della provincia americana. Non a caso in Italia la prima è andata in onda su La7 e l’altra su RaiDue.
SatC racconta di donne emancipate e in carriera che scoprono, come già succede ai maschietti, il conflitto fra la passione e il sentimento, fra ciò che si desidera e ciò che si ama, e delle relative tecniche per dare un’identità sociale al tumulto interiore.
E’ una serie su come dare forma all’essere.
DH racconta di brave mogliettine che scoprono come l’integrità morale e l’applicazione dei valori tradizionali siano fallimentari nel raggiungimento della felicità personale e quindi propone tecniche per dare realtà oggettiva all’ordine interiore.
E’ una serie su come dare essere alla forma.
Tra le due serie, SatC dovrebbe essermi più cara, in fondo sono quelle le donne che mi sono affini, eppure trovo più avvincente DH, mi intriga di più osservare queste donnine perfettine e crudeli, in particolare un personaggio trovo assolutamente geniale nella sua costruzione e interpretazione: Bree Van De Kamp.
Ho avuto una ragazza che le assomigliava: quando metteva la tovaglia a tavola la ristirava in maniera che non ci fossero i segni delle pieghe che lei non sopportava. Pur trovando questa ossessione maniacale molto affascinante, ho capito che lei non era la donna della mia vita. D’altra parte lei mi ha espresso come non poteva stare con uno che pubblica la sua merda su suo blog, figuriamoci se avesse visto i miei coglioni. Parentesi chiusa
Bree è il manuale della moglie perfetta a ogni costo. Il fine giustifica qualunque mezzo. Tanto che arriva a lasciar morire due uomini, il marito e l’amante-assassino-del-marito, pur di apparire una moglie perfetta anche in quanto vedova perfetta. La sua ossessione per l’ordine la porta a servirsi addirittura del sentimento della vendetta per mettere le cose a posto. Ma è anche la più grande perdente. Bree è la più infelice. Pur con tutti i suoi valori tradizionali, e pur con tutti i suoi sotterfugi, lei soffre per aver perso un marito masochista e per avere un figlio gay.
Eppure Bree è l’emblema della lotta per la vita. E’ spietata prima di tutto con se stessa.
Bree è il nostro dramma. Allo stesso tempo, si ama troppo e troppo poco.
Forse noi siamo ancora lontani da Bree. La fiction italiana parla ancora di eroi o di enclave sociali separate, o comunque tende a eroificare il quotidiano. Da noi ci sono ancora i poliziotti de La Squadra, Montalbano, gli inarrivabili di Un posto al sole.
Pur avendo la società italiana maggiore consapevolezza della società americana, la televisione italiana è industrialmente e culturalmente anni luce in ritardo rispetto a quella americana. Siamo riusciti a eroificare anche i reality show che infatti ora si fanno con le star.
Negli Stati Uniti solo il 50% va a votare, mentre in italia ha votato alle politiche oltre l’83% il che vorrebbe dire che siamo un paese unito e appassionato, altro che spaccato.
Forse.
Ma forse Bree è già tra di noi.